Andrea Viviani
Dicono

Andrea viviani, Lost in ceramics

di Cesare Biasini Selvaggi


Andrea Viviani trova la sua collocazione in quella couche internazionale, ormai in progressione anche in Italia, nel cui alveo di ricerca si distinguono l’abbandono del concetto di avanguardia, la rottura dell’assunto che per scrivere il futuro si possa solo guardare avanti, il recupero della pittura, della scultura e delle tecniche tradizionali (a partire dalla ceramica), un rinnovato interesse e utilizzo del colore, la ricerca di una nuova figurazione, la riconsiderazione della propria storia che si vuole rivisitare, interrogare ed evocare attraverso ogni escamotage possibile.

Connotato tipico del lavoro di Viviani, in particolare, è quello di un’arte “manuale” (nel doppio significato di “fatto a mano” e “da manuale”), a cui si sommano l’emotività dei colori, il piacere dell’immagine dipinta e della ripresa dei valori plastici di levigatezza. Il tutto scandito nell’ambito tematico di una leggerezza ludica, quasi degna di Palazzeschi, in ironico contrappunto con l’analoga leggerezza di cui sono dotati oggi i pixel dell’immagine digitale.

Viviani, come altri suoi colleghi contemporanei, non intende competere con la velocità del sistema ipertecnologico, ma opporre una sua personale lentezza, il tempo manuale necessario al suo compiersi. E la sua scultura non s’illude più di rappresentare il reale, perché ormai è il reale a presentarsi come dimensione inafferrabile. Presenta, invece, un mondo surreale che non vuole separarsi mai completamente dalla realtà, ma che rifiuta l’eccessiva razionalità della società odierna, senza però totalmente separarsi dalla ragione. La sua è una scultura che va ricevuta come “una torta in faccia”. Con tutta la sua ricca farcia di smalti al selenio, in riduzione, di acrilici su poliuretano espanso, e ancora di ceramiche e ferri su cuscini in gommapiuma rivestita di prato sintetico. L’effetto collaterale? Trovarsi catapultati all’improvviso su un’isola misteriosa come quella dell’ormai mitologica saga televisiva statunitense Lost. A differenza di quest’ultima, tuttavia, qui non si nascondono segreti mortali. Sull’isola o, meglio, sulle isole di Viviani (visto che quello insulare è un vero e proprio leitmotiv tematico) è più facile incontrare un coniglio bianco correre in panciotto con in mano un orologio da taschino. Siamo nel mondo fantastico di Lost versione “in ceramics”, dove all’improvviso ecco che può apparire un lunghissimo letto in ferro battuto, popolato da indecifrabili materie policrome tra smalti in riduzione e al selenio; così come sospese nell’aria possono aleggiare Meteore in fiore, oppure su un ampio tappeto erboso germinare copiosi fiori di ceramica e ferro dalle forme insolite.

 

C’è un profondo legame tra Andrea Viviani e il materiale che utilizza per scolpire, la ceramica, connesso alla dimensione alchemica e misteriosa incombente nel suo lavoro e, nel contempo, visceralmente legato alla natura che l’artista ri-crea ogni giorno in studio, dalla serie dei Ring (disteso, verticale) a quella delle Nebulose (rossa, orizzontale, pastello), fino ai Paesaggi (fluviale, vulcanico), attraverso un caratteristico biomorfismo. Per questi lavori sembra che trovi l’ispirazione da insoliti fenomeni naturali, come quelli geologici quali i mushrooms stones o i Dirt Cones o gli Hoodoos, rielaborati per trasformarli in qualcosa di altrettanto arcano e misterioso. Questa sua naturale inclinazione, tuttavia, non scevra da inquietudini anche ecologiste, è stemperata dal piacere della fantasia, del gioco, come ben sa chi è stato bambino in un tempo non troppo lontano, che si nutriva del puro desiderio di assemblare, di inventare ciò cui cose, magari anche “povere”, profondamente diverse, l’una sull’altra innestate in maniera persino strampalata, possono dare vita. 

 

Soltanto in apparenza, pertanto, siamo di fronte soltanto a visioni ludiche, spensierate, divertenti. In realtà Viviani intende scuotere il nostro immaginario con verità più profonde, avendo disseminato le sue opere di ironici enigmi e misteri sul senso della vita, per evidenziare la follia dei tempi moderni. Come in uno specchio deformante. E, forse inconsciamente, si spinge oltre. Facendo intravedere, tra un Giardino ovale e un Dream garden, un mondo possibile, ma poco probabile, dominato dall’immaginazione, nel quale la vita assume le sembianze del gioco, del fare, immersa armoniosamente nella natura. 


Il ritmo instabile della scultura di Andrea Viviani

di Gianluca Ranzi

 

La scultura di Andrea Viviani è limpida nella forma e cristallina nelle intenzioni, come un fiore di neve. Sono opere che riguardano lo spazio, la materia e le relazioni che tra di essi si creano. Viviani sembra infatti felicemente oscillare tra l’attenzione per la materia, che qui vuol dire la ceramica e i processi chimici che la riguardano, e l’estensione nello spazio. Piuttosto, è più verosimile che questi due aspetti convivano alla pari nella sua pratica artistica, come se la spinta verticale e vertiginosa dei volumi sentisse anche il bisogno di estendersi in orizzontale nello spazio, creando ambienti percorribili o attraversabili, o altresì opponendo allo sguardo frontale dello spettatore una nebulosa gassosa di cellule sospese nell’ambiente, che frantuma la singolarità del punto di vista e lo moltiplica nello spazio.

Certo è che materia e spazio costituiscono fin dai primordi della storia della scultura le due pietre miliari con cui confrontarsi e intorno a cui costruire un progetto credibile. Eppure qui materia e spazio portano sempre in sé la memoria dello sforzo fisico dell’artista, (quello che qualcuno in passato ha definito l’attitudine artigianale di Viviani per la ceramica), e quindi la memoria di un ciclo operativo e produttivo di chi impasta e cuoce, plasma e tornisce, passando dall’inerme della terracotta fino al molteplice della ceramica. Qui, in altre parole, il lavoro fisico e manuale, che non è esclusivamente artigianale, continua a farsi sentire e non viene camuffato dal pregiudizio di chi lo svaluta oggi a favore di una modalità progettuale asettica, programmata o sofisticatamente computerizzata. Insomma, se il lavoro fisico appare oggi sempre più sublimato dall’estetico, dalle macchine e dalla concettualità del contenuto, Viviani al contrario continua a parlare una “lingua viva” della scultura che sottopone regolarmente l’intelletto alla verifica della materia prima, sempre passando attraverso il lavoro fisico.

Nella violenta lotta tra gli elementi che Viviani scatena nel forno di cottura, egli se da una parte rivendica soltanto a sé la fisicità dell’azione, dall’altra libera l’astrazione dell’idea dal formalismo minimale e post-Bauhaus di molte esperienze contemporanee. In questo modo alla relazione tra materia e spazio a cui si accennava all’inizio si aggiunge anche quella tra lavoro fisico-materiale e lavoro intellettuale, in una corrispondenza polare che non riesce più a prescindere da nessuna delle sue componenti e anzi tutte le esercita e tutte le fa giocare insieme. E’ infatti evidente come nelle opere che costituiscono il corpo di questa mostra si senta vivo il percorso di formazione che l’autore ha avuto, da una parte frequentando Riccardo Schweizer e la sua attitudine multidisciplinare, di cui tralascia decisamente l’enfasi formale picassiana, ma da cui eredita la gioiosa sarabanda coloristica, dall’altra entrando in contatto con Roger Capron, lo straordinario ceramista francese responsabile negli anni Cinquanta della rinascita di Vallauris come centro di produzione della ceramica, da cui impara la tecnica giapponese Raku oggi abbondantemente usata nelle sue opere ceramiche e da cui forse mutua anche il rigore compositivo che maggiormente si fa sentire negli ultimi lavori.

Non va inoltre dimenticata l’influenza che lo sperimentalismo multiforme e totale di Fortunato Depero ha avuto su Viviani, di cui si sente un’eco lontana nella sua capacità di inscenare l’opera in un “complesso plastico” vibrante anche di ironia, di musicalità e di ritmica meccanica e naturale insieme. Da Depero viene anche l’interesse estremo per i materiali e per le tecniche, per la varietà degli effetti e per la ricerca di nuove soluzioni realizzative. A questo punto si direbbe però che esista un solo limite invalicabile alla sperimentazione creativa di Viviani: le esigenze e le caratteristiche intrinseche della materia stessa, che qui non viene mai forzata, truccata o metamorfosata, ma che rimane sempre se stessa e mantiene una sua virulenza petrosa e basica. Viviani difficilmente premette il progetto all’esecuzione, ma arriva a una realizzazione dialettica dell’opera, secondo un processo che cammina per via di approssimazione e di aggiustamenti, di scoperte e di nuovi problemi, di soluzioni inedite e di adattamenti.

E così, come l’avventura processuale che la origina, anche la scultura di Andrea Viviani ne trattiene alcune caratteristiche fondamentali: germinazioni di effetti dall’opaco all’opalescente, allineamento ai processi naturali, sviluppo di contorni frattalici insieme a lontane memorie euclidee, equilibrio frammisto a disequilibrio, contraddizione e unità, trasgressione della gravità e ascesi verticale, tensione costante tra ordine e disordine. In questo modo invece di tagliare e isolare forme plastiche egli le deforma, o meglio, celebra l’anti-forma nell’evidenza sfuggente di un riflesso, non ha paura di mostrare un lavoro fisico che è estraneo all’essenzialità anoressica dell’arte a-la-mode, contraddice l’astrazione ascetica dei suoi totem con un repertorio disneyano di pesci psichedelici e carnevaleschi, vincola la scultura alla pittura e insieme sembra affrancarla negli ultimi lavori monocromi o in quelli basati sugli stampi delle bottiglie, dove la neve raffredda non solo la temperatura del poliuretano ma anche la temperatura complessiva dell’opera finita.         

Ne risulta un’opera complessa e multiforme, che racchiude l’idea stessa della difformità della Natura, dai frattali di Mandelbrot alla regolarità geometrica delle colonne basaltiche di Giant’s Causeway. Nell’attenzione alla natura, che quindi non è semplice mimesi di forme quanto piuttosto una sintonia empatica con i suoi ritmi e con i suoi processi, Andrea Viviani fa della propria intuizione e dell'osservazione all’ambiente che lo circonda, il centro di una pratica d'indagine sul mondo poetica e profonda, che sa comprendere anche le leggi del caos, dell'instabilità, dell'impossibilità del controllo, dell'indeterminazione, dell'imprevedibile, dell'irregolare.

Questa visione articolata e complessa trova nella serie delle sculture di ceramica a stelo verticale, iniziata nel 2004, la sua dichiarazione più esplicita. Sono accumulazioni di forme geometriche irregolari, come spugne traspiranti, pietre iridescenti, concrezioni marine o basalti vulcanici, che si aprono in solchi, fenditure, buchi e crateri che divelgono la struttura chiusa della massa e aprono la scultura alle possibilità del divenire. Le fronde, i rami e le foglie usati da Viviani nel forno di cottura per intensificare il processo di riduzione intaccano le superfici ceramiche descrivendo eccentriche evoluzioni, segni e striature, tragitti grafici che non si ripetono mai uguali, marchi indelebili delle lame di fuoco, ramature dall’oro al rosso-bruno e dal celeste al viola.

Il blocco del volume si dissolve così nella dinamica fratta e instabile della complessità naturale e Viviani descrive curve che si potrebbero estendere all'infinito, seppur agendo all'interno di uno spazio finito il cui grado di irregolarità si mantiene costante. Come le equazioni lineari non sono sufficienti a dar conto della gran parte dei fenomeni del mondo, così la scultura di Andrea Viviani non si sottrae all’eccentricità dell'accidente e si porta vicinissima alla complessità della natura. Essa infatti non prevede mai la depurazione dei fenomeni dal rumore di fondo. La sua è un'esperienza ecologica ante litteram, nel suo porsi incondizionatamente all'unisono con la molteplicità del reale, nella ricchezza apparentemente disordinata delle composizioni, nell'accumulo degli elementi, delle tracce della lavorazione e dei reperti della vita materiale come bottiglie, nodi e stringhe, nell'utilizzo di tecniche diverse e di materiali eterogenei che riflettono la poliedricità della vita, le contraddizioni del quotidiano e il rifiuto di una civiltà prevaricante e sorda agli equilibri dell'ecosistema in cui vive.

Il dinamismo innescato rivendica come valore supremo della scultura quella tensione alla metamorfosi per cui l'opera dell'uomo trascorre senza soluzione di continuità alla materia inerme che diviene, a sua volta, lingua viva. Andrea Viviani si muove in questo orizzonte stratificato e variegato con sottili oscillazioni e grande delicatezza, con una costante capacità di compenetrarsi con l'esterno senza particolari traumi, ma anche senza falsi e pedissequi mimetismi. Il critico inglese Herbert Read ha evidenziato alcuni caratteri salienti della scultura contemporanea che ben si possono trasferire anche al lavoro di Viviani, soprattutto pensando al suo lavoro “grafico” nei muri di nodi e alle punte aggettanti ed estroflesse dei suoi totem. In A Concise History of Modern Sculpture, pubblicato a Londra nel 1964, Read sottolineava come “la nuova scultura, essenzialmente aperta nelle forme, dinamica nelle intenzioni, cerca di mascherare la sua massa e la sua ponderabilità. Non è coesiva ma corsiva: uno scarabocchio nell'aria. Lungi dal ricercare un punto di appoggio e di stabilità su un piano orizzontale, si solleva da terra e cerca un movimento ideale nello spazio. Lungi dal conformarsi a un ideale di contenimento è essenzialmente articolata e si rivolge allo spettatore con punte aggressive”.

Verticale, aperta e articolata è per l’appunto anche la scultura di Viviani, che è anch’essa a suo modo corsiva per quel suo apparentamento alla pittura e al disegno, per il suo sapersi riannodare intorno a un segno che sembra talvolta diventare grafia. Alla forma chiusa del volume la scultura oppone un dettaglio o una proliferazione di elementi che ne scardinano l'andamento serrato e regolare aprendosi all'esterno, facendola reagire alla luce, esaltandone lo sviluppo dinamico. Così le ceramiche si ricoprono di grafemi e si strutturano in strati di superfici pellicolari, si animano di decine di “incidenti controllati” che fioriscono sulle superfici raggiungendo effetti di delicato virtuosismo pittorico, facendo emergere i minerali contenuti negli smalti: argento, rame e cobalto.

La semplicità del mondo organico si esprime anche attraverso l’irregolarità, l’asimmetria e, secondo l’estetica giapponese, attraverso lo spirito del vago. L’asimmetria diventa infatti un tratto costante della scultura di Andrea Viviani, spodestando l’armonia delle proporzioni che da sola non basta per render conto della complessità naturale e penetrando oltre la soglia dei fenomeni in un sommesso colloquio privato col mondo, poiché come afferma Henri Poincarè in La Scienza e l'Ipotesi,  se “da un lato la semplicità si nasconde sotto apparenze complesse, dall'altro, al contrario, è la semplicità a dissimulare realtà estremamente complesse”.

Questa forma aperta e pulsante dell’opera, che racchiude l’accidente e che evoca il mistero dell’esistenza, risuona nel lavoro dell’artista, favorisce il dialogo tra finito e non-finito (in-finito) e realizza una mobilità mediata dell’opera: un certo tremolio instabile conferito alle forme dalla vibrazione dei contorni e dalla smaterializzazione della forma nella luce, che si addensa e scivola via sulle superfici opalescenti. E’ in effetti la luce che rivela (svela di nuovo e riavvolge) il fiorire, lo svariare, l’eclissare e il riemergere delle forme della scultura di Viviani, immerse in uno spazio risonante che tutte le abbraccia, le contiene e le connette.

Ecco il fascino estremo del lavoro di Andrea Viviani: devozione all’arte che supera se stessa nel contatto profondo con la vita, espressione della bellezza trasfigurata dalla realtà della materia e stupore inafferrabile dell’incompletezza, del sentirsi fluidamente tra le cose del mondo naturale. Come ha scritto Yoshida Kenkō: “In ogni cosa, l’uniformità è sconsigliabile. L’incompletezza in un oggetto lo rende interessante, e dà l’impressione che ci sia sempre la possibilità di perfezionamento”.

Così, anche per Andrea Viviani la scultura non è data una volta per tutte, ma è uno specchio chiaro e terso tra i fiori di neve, perennemente in divenire.




L’arte della mano di Andrea Viviani

di Maria Grazia Massafra


«Architetti, scultori, pittori, dobbiamo tutti tornare al mestiere! L’arte non è una “professione”. Non c’è alcuna differenza qualitativa fra artista e artigiano. L’artista è solo un artigiano potenziato», scriveva Walter Gropius nel Manifesto della Bauhaus, pubblicato nel 1919.

L’artista e l’artigiano rappresentano due facce di una stessa medaglia, e dal loro dialogo e confronto nasce quell’eccellenza che si traduce in differenza, in unicità. Il saper fare dell’artigiano Andrea Viviani, per poter diventare eccellenza artistica, si è dovuto mettere in relazione con le matrici intellettuali, culturali e artistiche della sua ispirazione, restituendo nelle sue opere una visione “significativa” di quel saper fare. L’indiscussa capacità di Andrea Viviani di rivitalizzare in chiave contemporanea una tradizione antica di secoli, quella della ceramica e in particolare della tecnica Raku, crea delle invenzioni sorprendenti, che non sono solo una stanca replica del passato. L’artista artigiano del futuro, di cui Andra Viviani è un esempio significativo, coniuga le abilità della propria mano con le capacità innovative della propria mente, ottenendo risultati assolutamente unici.

Andrea Viviani porta il linguaggio della ceramica verso il rinnovamento, con l’uso di un vocabolario contemporaneo, contaminato da idiomi legati non solo ai luoghi e al territorio di appartenenza, ma anche ad antiche tradizioni orientali. Le opere dell'intelligenza " della mano” di Andrea Viviani sintetizzano tradizione e innovazione, attraverso la conoscenza perfetta dei materiali e delle tecniche, spinta fino ad ardite sperimentazioni.

Quale luogo migliore poteva accogliere le opere di questo artista? La Casina delle Civette è luogo delle Arti Applicate: dalle vetrate artistiche, alle maioliche, alle ceramiche, agli arredi, ai ferri battuti. Anche Andrea Viviani si muove nell’ambito delle Arti Applicate, realizzando mosaici, stufe a legna, formelle in rilievo, ceramiche decorative, come anche oggetti di design e di arredo. Egli cerca di integrare arte e ambiente, creando forme ispirate dalla Natura, non attraverso un linguaggio imitativo, ma decontestualizzando gli elementi naturali e ideando forme innovative che, attraverso lo stupore, ci fanno contemplare la bellezza del creato. La Natura - prati, fiori, alberi - è parte integrante del paesaggio circostante la Casina delle Civette: proprio agli alberi si ispirano i suoi “totem”, che creano all’esterno dello spazio espositivo una sorta di bosco cromatico. Il colore e la ricerca cromatica sono un altro elemento che lega i “totem” di Andrea Viviani con lo spazio interno della Casina: lungo il percorso dei due piani dell’edificio, che nasce come “rifugio alpestre” nel 1840 e mantiene, anche negli interventi di inizio Novecento, l’aspetto di una “casa” nordica, in cui il legno è l’elemento principale, sono sapientemente collocati, in alcuni punti di snodo delle stanze con una particolare visuale, i suoi alberi-totem.

Le linee, i colori, le forme, i materiali di Andrea Viviani invadono lo spazio con i loro “racconti” visionari, la loro verticalità e asimmetria. Asimmetria e irregolarità che creano nelle opere un continuo divenire, una continua trasformazione: equilibri instabili che spingono verso l’alto, verso il cielo, in un’ascesa continua che provoca vertigine, creando una vibrazione dell’anima all’unisono con l’energia spirituale che permea la natura e ogni essere vivente. È questa energia spirituale ascensionale che spinge l’artista a ricercare forme più libere, più essenziali, archetipiche, che evocano la visione di una natura globale.

I “totem” di Andrea Viviani raccontano, attraverso l’ordine verticale delle immagini, visioni “sciamaniche” di una Natura globale che vive in un continuum dimensionale, in cui animali, piante, minerali galleggiano in una sostanza fluida, in continuo divenire. La montagna, con la sua vertigine verticale, è grande fonte di ispirazione per l’opera di Andrea Viviani, che non poteva essere ospitata in un luogo più consono della “Capanna svizzera”, rifugio alpestre divenuto poi Casina delle Civette.

 

Andrea Viviani o del superamento del confine fra le arti


di Emidio De Albentiis

 

L’essenza più intima dell’arte di Andrea Viviani, artista trentino non solo dall’ampio curriculum ma anche dalla corposa formazione estetica e culturale (si pensi che nel suo percorso ha pure conseguito una importante laurea in Economia politica), è la volontà costante di superare le barriere disciplinari. Ceramista per prima fondamentale vocazione (un materiale che non ha mai abbandonato – entro una carriera iniziatasi con le prime mostre nel 2006 – e che ha sempre sperimentato nelle più varie tecniche ed elaborazioni formali), Viviani ha guardato alla scultura e alla pittura, certo, con opere che conquistano spazio e si aprono a cromie fantasmagoriche, ma, ancor più significativamente, non ha affatto disdegnato i linguaggi dell’installazione e del dialogo sempre vitale con l’architettura.

Non può in alcun modo sfuggire come l’artista, nel progettare una sua esposizione, analizzi con estrema cura lo spazio in cui andrà a collocare le sue opere, una prassi divenuta indubbiamente sempre più diffusa nell’arte dei nostri tempi, ma che in Viviani conserva una sorta di sapienziale artigianalità che sembra provenire da una antichissima tradizione. Ho qui in mente, a puro titolo di esempio, la relazione che in una sua recente personale alla Casina delle Civette di Villa Torlonia a Roma (2016) un’opera come Fiore a casco stabiliva con il pilastro divisorio centrale di una elegantissima finestra centinata a doppio quarto di cerchio e decorata da vivaci vetrate liberty. Sono proprio questi due aspetti (saper andare oltre le convenzioni di genere e dare risalto ad un particolare valore dell’artigianalità) – naturalmente insieme ad altri che si enucleeranno poco più avanti – i capisaldi che risultano in grado di orientare con efficacia la percezione della ricerca di Andrea Viviani. Entrambe le cose rimandano a mio parere a una radice fondante che, più che nell’innegabile meditazione dell’artista sul Bauhaus (come è stato recentemente messo in luce soprattutto da Maria Grazia Massafra), dev’essere individuata proprio nella gloriosa stagione dell’Art Nouveau, con i suoi fondamenti artistico-artigianali propri di un William Morris e del suo movimento delle Arts and Crafts o di un Antoni Gaudí (con la sua estrema cura per i dettagli di arredo, di qualsivoglia natura materica essi fossero). Con quella generazione sospesa tra due secoli si pose in modo ancor più deciso (anche se non definitivo) l’esigenza di considerare pienamente pertinenti alla dimensione ideale e idealizzata dell’arte i valori intrinseci dell’artigianato di qualità, pur se continuava a restare complesso – e lo sarebbe stato a lungo – il problema del modo in cui identificare questo stesso concetto di qualità.

Ci sono due luoghi emblematici che aiutano ulteriormente a comprendere lo spirito profondo dell’ispirazione di Andrea Viviani, come ha ben messo in luce Gianluca Ranzi: il primo locus è connesso alla sua origine trentina, a contatto con le fantasmagorie creative di Fortunato Depero, presso la cui residenza di Rovereto si custodisce tuttora un emozionante museo voluto con contagioso entusiasmo dallo stesso artista. C’è un celebre passo de La ricostruzione futurista dell’universo, che Depero scrisse insieme a Giacomo Balla nel 1915, in cui i due grandi artisti auspicano un mondo (anzi, un universo!) “coloratissimo e luminosissimo”, una frase che sembra decisamente avere fatto presa anche su Viviani, come si vedrà fra breve. L’altro luogo è Vallauris, in Provenza, che Picasso seppe rivitalizzare nel secondo dopoguerra facendosi promotore di un’attività imperniata sulla produzione ceramica di qualità (di nuovo il binomio arte/artigianato nel senso della loro reciproca dialettica) su cui si innestarono poi molteplici esperienze. Una di esse riguarda direttamente Andrea, il discepolato tecnico-estetico presso Roger Capron intorno al 2000: l’esperienza molteplice di questo autentico maestro della ceramica (fra l’altro caratterizzato da importanti rapporti con l’industria emiliana (altra riprova della commistione fra mondi apparentemente diversi), porta Viviani a vari approfondimenti, quali ad esempio la scultura ceramica su basamento (detta en ronde-bosse), l’affinamento della tecnica raku e, soprattutto, una sempre rinnovata propensione a coniugare forme, colori, segni, sculture e installazioni.

Proprio questo è il grande segreto della magia artistica di Andrea: sarebbe palesemente sviante cercare di individuare una direttrice formale unica della sua ricerca, il verticalismo o la plasticità, l’estensione laterale o le forme nervose e sintetiche, la sia pur più rara monocromia o l’accostamento senza posa di colori che sembrano cantare tra loro. No, l’unica cosa che riconnette insieme l’ispirazione di questo artista, che non è affatto anarchico (perché, come già si è detto, ogni opera poggia su una rigorosa progettazione) – ammesso e non concesso, naturalmente, che l’anarchia artistica sia negativa di per sé! – è un bisogno incessante e pieno di vita di variatio, di misurarsi con sempre nuovi problemi creativi e formali. Un bisogno inesausto che sembra ricordare, fra i nomi che si sono fatti, soprattutto Depero e Picasso, ma senza che Viviani debba dichiararsi debitore di questi luminosi esempi del passato: in lui prevale l’urgenza di uno stimolo al fare che proviene da maestri come i due appena nominati, non il comodo appoggiarsi a forme e ricerche che si sono già manifestate. Di certo Andrea Viviani non si accontenta di una formula in cui far prevalere una facile riconoscibilità, magari utile a fini più direttamente mercantili: la sua riconoscibilità è tutta nel continuo variare delle forme, dei colori e dei segni, l’aspetto in cui si sente più autenticamente se stesso.

Con questa ultima mostra, Playground, distribuita in due sedi (distinte anche temporalmente), a Cinisello Balsamo (Milano) nella storica Villa Ghirlanda e a Perugia, nella Temporary Academy dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci”, Viviani esplicita ancor più il lato ludico del suo lavoro, convinto com’è che l’arte debba essere in primis una manifestazione di questo lato fondamentale del nostro esistere: il gioco, un po’ alla maniera di Huizinga, come espressione creativa che non solo rende conto del perché l’Uomo riconosca così tanto valore all’arte in quanto tale entro una sorta di mundus dionisiaco governato da regole, ma anche del fatto che è proprio su questo fondamento che si regge l’intera struttura dell’ordine sociale. Ma al di là di questa lettura anche socio-antropologica dell’arte di Andrea, è proprio la gioiosità del suo operare a prendere decisamente il sopravvento sui pur fascinosissimi Ritmi instabili della mostra romana dello scorso autunno alla Casina delle Civette: una gioia, si badi, che non è affatto espressione superficiale di un mondo di essere privo di profondità, ma che, al contrario, recupera gli stimoli preziosi e vitali di un altro grande provenzale, Henri Matisse (Viviani è anche pittore), non disgiunti da uno sguardo non immemore delle combinazioni segnico-cromatiche – ricche di passaggi tra mondo reale e immaginazione visionaria – di Paul Klee. Ma, tornando in chiusura alle sculture presentate da Andrea Viviani in questa mostra del 2017, alcuni suoi particolari lavori (sto pensando ad esempio a Sweet fish, a Carrocavallo e a Playground), legati al gioco inevitabilmente sospeso tra la dimensione ludico-emotiva e quella – strettamente connessa – della pensosità esistenziale, paiono situarsi in prossimità della lunghezza d’onda dei Teatrini di Fausto Melotti, forse non del tutto causalmente figlio anch’egli di Rovereto e del Trentino.

 

 

PENSIERO LIQUIDO Pesci, Coralli e Pensatori

di  Vanda Sabatino

   

 

Da ragazzi, gli adulti della nostra generazione sognavano ad occhi aperti di poter volare liberi con il pensiero, senza l'incombenza e il peso del corpo. Immaginavano di poter raggiungere nuove prospettive, nuovi punti di vista che gli consentissero di creare "mondi nuovi”.

 

Oggi tutto questo è realtà. Con l'avvento del web, la globalizzazione e il crollo di ideologie dominanti quei sogni prendono vita. Attraverso le nuove tecnologie si entra in possesso di un corpo virtuale, o addirittura si diviene un unico grande corpo, dove tutti sono cellule di pensiero che condividono un pensiero liquido.

Il sociologo e filosofo contemporaneo Zygmunt Bauman è il principale teorico del pensiero liquido. Dall’incontro intellettuale con questa personalità e con i suoi esegeti, Viviani trae conferma alle ragioni del proprio lavoro. Egli condivide l’opinione che la mente, così come siamo abituati a considerarla, stia crollando e che in questo periodo della storia dell’umanità, stia nascendo una nuova configurazione che da un pensiero descrittivo, passi ad un pensiero liquido, scaturito direttamente dalla percezione dei sensi. Così per i “nuovi esseri” senza mente, ogni percezione fa ricominciare il “mondo” da zero. Continue visioni istantanee si sovrappongono e non si storicizzano, anzi, ognuna di esse sembra duellare con la precedente per prevalere. In questa sorta di “mondo liquido” viene meno la cultura dell’apprendimento, dell’accumulazione, a favore del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza. L’identità è come una maglietta, da sostituire quando serve.

 

Con le proprie opere Andrea Viviani, esplicita questi pensieri in chiave ludica. Il suo “Mondo liquido” è abitato da pesci e forme antropomorfe che ricordano la vegetazione marina; tutti i paesaggi diventano degli acquari in cui gli uomini sono rappresentati dai pesci.

In contrapposizione alla fluidità di questa vita sommersa vi sono alcune strutture solide come i coralli, su cui si infrange la forza delle onde, oppure la figura del pensatore.

L’artista sembra suggerire che vi siano due modalità per vivere questo presente: l’uomo può scegliere di essere pesce o pensatore.

Il pesce vive ad occhi spalancati e “pensa” attraverso le cose che vede. Utilizza i sensi e trae le conoscenze dall’esterno, in modo liquido, cambiando continuamente forma e sostanza al pensiero. Per questa pratica non serve più una mente speculativa.

Il pensatore invece è stabile, in una posizione che gli consente di elaborare dall’interno. Ha gli occhi abbassati, resta concentrato nei propri pensieri interiori, potendo così difendere la propria identità.

Ma queste due modalità non sono necessariamente in contrapposizione. Viviani desidera sottolineare le caratteristiche dei tempi moderni, non per rifiutarli, ma per esortare a non perdere completamente il controllo.

Talvolta, ma non sempre, il processo mentale si limita a “sentire” attraverso i sensi invece di elaborare, costruire, architettare come succedeva una volta, quando il pensiero era legato all'esperienza diretta, all'autocoscienza e alla personale architettura cerebrale.

Nonostante l’utilità e la facilità dei nuovi media, bisognerebbe conservare entrambe le capacità, per non lasciarsi sciogliere in questo oceano.

Un altro aspetto importante di Viviani, riguarda la capacità di estendere la propria creatività al di fuori delle “Belle Arti” e raggiungere qualsiasi oggetto.

Lavorare sulle cose vuol dire entrare in una dimensione quotidiana e aprirsi a un dialogo più ampio, non necessariamente con gli addetti ai lavori, le gallerie, i musei, ma con la gente. Queste opere sono frutto di una ricerca artistica e non artigianale, per esempio; il rivestimento di un pilastro per un negozio, lo costringe alla realizzazione di formelle a rilievo, pezzi unici, elaborati singolarmente, da accostare, in cui la semplice ricerca del colore necessita studi approfonditi e ripetute prove. Si tratta di qualcosa che appartiene al mondo reale, fruibile a tutti, ma con un contenuto artistico ed estetico. Questi “oggetti” sono Arte come le sculture e i dipinti. Elementi concreti e tangibili della vita contemporanea che affinano il gusto e testimoniano la funzione etica dell’arte.

 

 

 

ESTRATTO DELL'INTERVISTA

ALLO STORICO DELL'ARTE

MAURIZIO SCUDIERO

Aprile 2012

        

         Dal punto di vista storico la “verve” pittorica di Andrea Viviani viene da un'artista ben preciso che si chiama Riccardo Schweizer. Riccardo Schweizer è stato uno dei pochi artisti italiani che capì l'importanza di Picasso quando non era ancora stata capita dalla critica. Da assistente di Saetti a Venezia negli anni “40,  abbandonò l'accademia per andare a conoscere Picasso a Vallauris in Francia. Ritornato in Italia si stabilì in Val di Non. La Val di Non è la valle che stà dietro la montagna di Madonna di Campiglio, questo ha fatto si che Viviani conoscesse Schweizer e tramite lui Picasso. 

Ma, parliamoci chiaro, Viviani attraverso Schweizer ha amato Picasso ma non ha mai copiato ne Schweizer ne Picasso. Cioè, è stato molto bravo perchè è riuscito a metabolizzare questo stile postcubista, moderno e tinte piatte, con una prospettiva spezzata e l'ha adattata ai suoi pensieri.

Viviani ha un'altra caratteristica, essendo trentino, ha studiato Fortunato Depero e ha condiviso un' altro assunto fondamentale del ventesimo secolo, quello di portare l'arte fuori dagli atelier, fuori dai musei e dalle gallerie nella vita. Viviani guarda a Depero e anche lui decide di applicare la sua creatività non solo alla pittura e alla scultura“nobile” ma a tutta una serie di manufatti.  Nel suo atelier produce di tutto, dipinti e sculture ma anche stufe, mobili, oggetti di uso corrente specialmente in ceramica dove la creatività in sé è applicata con uguale dignità. E appunto l'attività di ceramista lo lega ancora alla Francia, ed in particolar modo all'artista Roger Capron, ceramista di Picasso prima di Schweizer e Viviani poi.

Una cosa che contraddistingue Viviani è la sua espressa intenzione di dare contenuti alle sue opere. Andrea Viviani, è stato molto impressionato da un libro “Guy Debort” “La società dello spettacolo” Questo libro postulava che, nella società contemporanea,  i consumatori sono diventati  di fatto gli spettatori di questo “spettacolo globale”. Sebbene Viviani risolva nella sua arte questo postulato in maniera abbastanza ludica, lui è talmente autocritico che è partito dal luogo dove vive e lavora che è Madonna di Campiglio, quindi ha fatto una serie di interventi a colori piatti, serigrafie, sovrapposizioni, ancora qualche anno fa, che ha intitolato “Il paese dei balocchi”.

Viviani è un'artista a tutto tondo, e un'artista in continua crescita in continua evoluzione, non ha ancora uno stile codificato, ma è proprio questo interessante di questo artista perché ti spiazza sempre, continua a trovare cose nuove, ma soprattutto continua a produrre in sintonia non tanto con quelli che sono i sintomi del mercato quanto appunto ai sintomi della società, lui è molto attento alla società e cerca di trasferire tutto questo nel suo lavoro.